Sono un servo longobardo che, a forza di lavorare nei campi, si è stancato. Sono scappato e non voglio più tornare in quella corte1 cui ero privo di libertà, costretto a duro lavoro, giorno dopo giorno, anno dopo anno, senza nessuna possibilità di cambiare mestiere e vita.
Oggi sono arrivato in questo paese chiamato Verona. Qui è tutto nuovo ai miei occhi. Per fortuna ho trovato vitto e alloggio offertomi da una donna impietosita che,colpita dal mio aspetto magro e macilento, che manifesta giorni di digiuno, mi ha dato un po’ di fieno per riposare e una tazza di latte caldo.
Ora vado in giro per la città, a vedere se trovo un lavoro che si addica a me2. In questo posto debbono essere tutti ricchi dato che girano con abiti eleganti, con spade di metallo lavorato; le donne passeggiano con mariti adorni di fibule e fermagli lucenti. Sui capelli portano cuffie ornate con spille, dalle orecchie pendono orecchini in oro lavorato.
Nelle campagne da dove provengo io non ci sono di certo persone cosi ricche. La gente veste miseramente, con abiti semplici, di rozzo panno; gli uomini indossano corte braghe, calzari costituiti da fasce; nessuna donna porta gioielli; non se li può permettere3.
«Che sta accadendo?» urlo; in fondo alla strada accade una cosa sorprendente: un servo è sbucato all’improvviso e ha disarcionato da cavallo un nobile; se quel servo verrà preso mentre corre disperato, dovrà certamente essere punito in modo severo, come la legge prevede per i servi che si ribellano agli uomini liberi4. Più avanti due uomini lottano violentemente: uno dei due, un servo certamente dall’abito, osa afferrare l’altro per la lunga barba e per i capelli fino a farlo cadere a terra: anche per lui sicuramente una multa in denaro da pagare5. Accanto a me due persone, evidentemente due arimanni6, commentano ad alta voce :«Per fortuna i giudici puniscono i malfattori in base all’Editto di Rotari, altrimenti chi terrebbe più a freno questi servi ribaldi?».
Intanto guardano male anche me. Io sono sconcertato: sono fuggito dalle campagne per trovare giustizia e libertà, ma queste scene di violenza e l’odio tra uomini che si disprezzano mi turbano e mi fanno prevedere poco di buono per me. Mentre cammino vedo una chiesa e mi dirigo verso di essa.
Entrato penso :«Appena in tempo»; infatti la celebrazione della messa inizia nell’istante in cui entro. Il sacerdote parla di strane cose che mi sorprendono: racconta di un luogo chiamato inferno, di spiriti maligni, di dannati e di atroci punizioni per chi in vita ha commesso orribili peccati e atti di violenza…. Da prima non presto a quei discorsi, ma poi, data la precisione con la quale il sacerdote descrive quel terribile posto, mi interesso all’argomento.
Uscito dalla chiesa piuttosto frastornato, noto che tutte le persone mi guardano insistentemente. Io, provenendo dalle campagne, non possiedo collane, ma solo pochi e miseri vestiti stracciati e vecchi: probabilmente per questo gli abitanti del paese mi guardano così male. C’è da dire un’altra cosa: io non sono ancora adulto e non mi sono tagliato i capelli nel modo tradizionale dei longobardi liberi: capelli lunghi alle spalle sul davanti e tagliati più corti dietro, tanto da mostrare la nuca scoperta7.
Non faccio molto caso alla gente e di corsa torno alla casa dove avevo ricevuto ospitalità, pensando a ciò che il sacerdote aveva detto riguardo all’inferno, chi, dopo una vita più o meno lunga trascorsa sulla terra ci sarebbe finito? I ladri, gli assassini? Forse anche quei servi che avevano osato ribellarsi agli uomini liberi? Forse anche chi, come me, era fuggito dalle campagne e aveva così disubbidito alla volontà del signore proprietario della terra?
A sera, coricandomi sul pagliericcio, mi ritornano in mente le frasi udite in chiesa e mi spaventano a tal punto da farmi sognare l’inferno.
Mi ritrovo misteriosamente in uno spazio buio e tetro: sembra quasi che galleggi nel vuoto; mi guardo attorno e vedo la notte con le sue tenebre; lamenti strazianti giungono alle mie orecchie, ma agli occhi ancora nessuna immagine. Solo dopo qualche minuto appare ai miei occhi una porta: da lì provengono lamenti acuti. Mi avvicino a passo lento, esito un po’, ma poi, preso dalla curiosità e dalla paura, che mi volteggiano attorno come uccelli rapaci pronti a colpire, con mano tremante spingo la porta che in un primo momento cigola e poi si spalanca. Ciò che mi appare è orribile. E’ una scena di confusione, agitazione e panico: mostri alati che sputano fuoco, esseri immondi che torturano a sangue anime di dannati e di pagani8. Vedo in lontananza corpi con la testa china dalla quale escono filamenti di sangue e liquido verdastro; altre persone sono torturate a bastonate da piccoli e maligni diavoletti violenti;qua corpi amputati; là altri decapitati. Io, preso dal panico, sbatto la porta ma un mostro alato mi afferra portandomi all’interno di quella folla ululante. Il panico mi assale, mentre guardo dall’alto mostri che deformano il corpo e il volto delle persone strappando loro gli occhi e rendendoli putrefatti. Mi preoccupo anche per me, ma capisco che lo spettro non vuole lasciarmi lì: infatti io non sono ancora morto; egli vuole farmi vedere dove potrei finire dopo la vita terrena. Una voce accanto a me chiede :«Che posto è questo?» Intanto due braccia senza testa si allungano verso di me. Un’altra scena strana e repellente mi fa raddrizzare i capelli: un drago alato, dalla cui bocca esce fuoco, incenerisce anime urlanti. Finalmente lo spirito mi riconduce fino alla porta, poi mi lascia cadere nel buio, nel nulla. Io urlo per la paura, ma poi mi sveglio di colpo, sobbalzando sul pagliericcio.
Per fortuna non è accaduto nulla; è stato solo un incubo, un terribile incubo. Sono ancora qui, sul mio pagliericcio. Piano piano mi tranquillizzo.
Ormai il sole è alto nel cielo e penso proprio che, una volta salutata la buona donna che mi ha ospitato, partirò in cerca di un altro posto dove spero di trovare lavoro. Penso anche a come rimediare alle colpe che potrei aver commesso, per non finire all’inferno.
Forse non avrei dovuto disobbedire al padrone e fuggire dai campi verso la città?
Forse avrei dovuto accettare il mio duro destino di servo?
Forse.


Note Storiche:

  1. La corte longobarda era costituita dai poderi da coltivare, dalle abitazioni del signore e dei contadini, da stalle, depositi ed altri edifici.
  2. I servi della gleba non potevano essere accolti nelle città né abbandonare le campagne. La situazione si modificherà dopo Liutprando che autorizzerà la “manomissione” (liberazione degli schiavi).
  3. Le notizie sull’abbigliamento degli uomini e delle donne sono state tratte da “Arrivano i Longobardi” di Alessandro d’Osualdo.
  4. Editto di Rotari, articolo XXX: “Se un servo farà cadere da cavallo un uomo libero con qualunque mezzo e con l’intenzione di nuocergli paghi un’ammenda di ottanta soldi”.
  5. Editto di Rotari, articolo CCCLXXXIII: “Se qualcuno afferra un uomo libero per la barba o per i capelli e lo minaccia con un bastone paghi sei soldi”.
  6. Gli arimanni erano uomini liberi, armati, privilegiati tra tutte le classi (arimanni, aldii, servi).
  7. Longobardi: “dalla barba lunga”, figli del Dio Gotan dalla lunga barba. Le notizie sul modo di portare i capelli sono tratte da un brano di P. Diacono, autore della “Historia longobardorum”.
  8. Le chiese medioevali erano ricche di raffigurazioni dell’inferno: affreschi nelle pareti e sculture nei capitelli rappresentavano scene spaventose di uomini in lotta con esseri mostruosi. Nel 728, anno in cui sono immaginate le vicende di questo racconto, Liutprando occupò Sutni e la “donò” a papa Gregorio II: nascita ufficiale dello Stato Pontificio.
    Le notizie sono tratte da “L’alto medioevo occidentale” di Michael Rouche.