Era una giornata grigia di quel lungo inverno dell’anno 774 e nello scriptorium1 del convento frate Ernesto scriveva. Era un monaco benedettino; viveva nell’abbazia di Nonantola2 con i suoi confratelli. Quel giorno frate Ernesto, mentre ricopiava un libro antico, si accorse che non c’erano braci nel braciere. L’ambiente, illuminato da una luce pallida che entrava dalle piccole finestre, sembrò ancora più buio e squallido. Così decise di parlare all’abate che, con occhio vigile, controllava il suo lavoro; ma purtroppo egli, afflitto, gli rispose che non c’era più legna, neanche nella legnaia.
Quelli erano tempi difficili per tutti, anche all’esterno del convento. I Longobardi, che avevano voluto la fondazione di quel monastero, erano in gravi difficoltà: i Franchi erano scesi nella pianura padana; proprio quell’anno avevano assediato anche città come Pavia e avevano ripetutamente sconfitto i Longobardi. Il vecchio re longobardo Desiderio aveva inutilmente concesso sua figlia, Ermengarda, in sposa a Carlo, re dei Franchi, per favorire la pace tra i popoli: la donna era stata ripudiata e il re stesso, sconfitto e umiliato, era stato rinchiuso in un convento3.
Di quanto accadeva giungeva notizia anche a Nonantola; ed allora era un bisbigliare tra i monaci che interrompevano il silenzio cui erano tenuti durante la preghiera e il lavoro.
Frate Ernesto, che in quella fredda giornata stava meditando sulle avversità dei tempi, fu scosso da brividi di freddo: portava solo una leggera tunica per ripararsi dal freddo; se ne stava seduto tutto il giorno su uno sgabello malridotto. Per il suo lavoro di copiatura si serviva di una penna d’oca che intingeva in un calamaio dove l’inchiostro era mezzo congelato; doveva prestare attenzione a non macchiare la pergamena sulla quale scriveva. Soltanto grazie alla pazienza sua e degli altri amanuensi gli antichi testi classici e sacri potevano essere conservati e tramandati. A mezzogiorno in punto suonò la campanella: era l’ora del pasto.
Frate Ernesto ripose la penna sul suo scrittoio e si avviò lestamente verso il refettorio4. Terminato il frugale pasto e dopo una breve siesta, tornò al suo lavoro. La stanza era sempre più fredda: la schiena gli doleva, i suoi piedi erano quasi congelati e le mani intirizzite dal freddo. A fatica riusciva a tenere la penna e a continuare il suo lavoro.
Si guardò intorno: accanto a lui, tra gli altri amanuensi, anche padre Giovanni stava copiando un testo, la Bibbia; il frate non si sentiva molto bene. Era anziano, aveva dolori alle mani; aveva gli occhi rossi per lo sforzo di scrivere con precisione da tanti anni.
Padre Giovanni era vestito con un lungo mantello con il quale tentava di ripararsi i piedi dal freddo. Frate Ernesto gli si avvicinò per fargli un po’ compagnia; osservò la scrittura tanto piccola e ordinata: quanta pazienza e abilità occorrevano!
Padre Giovanni già da quasi un anno stava scrivendo il suo libro e non lo aveva ancora ultimato. Egli confidò a frate Ernesto che temeva di non riuscire a finirlo, perché le mani gli tremavano. Allora, mettendogli un braccio sulla spalla, frate Ernesto gli promise che, se proprio non fosse stato più in grado di scrivere, avrebbe completato lui il suo lavoro, perché ormai era diventato un buon amanuense e nessuno, anche dopo tanti anni, si sarebbe accorto che quel libro era stato scritto da due diverse mani.
Quella giornata il priore5 concesse ai monaci di andare a riposare prima e di dedicare più tempo alla preghiera.


Note Storiche:

  1. Scriptorium: era la sala del convento per la lettura e la scrittura.
  2. Abbazia di Nonantola: fondata nel 751-752 per volontà di Anselmo, già duca del Friuli e cognato di Astolfo, re Longobardo. Tenuta dai Benedettini, divenne centro di cultura. Nel XII secolo fu ricostruita in stile romanico.
  3. Nel 774 nella pianura padana alla dominazione dei Longobardi, governati dal re Desiderio, si era sostituita quella dei Franchi, guidati dal re Carlo
  4. Refettorio: ambiente in cui i monaci mangiavano.
  5. Priore, abate: massima autorità del convento-abbazia.